La cordata per salvare “Il Lavoro” – Una testimonianza
Sono stato coinvolto in questa avventura dal vecchio amico, Roberto Speciale, un’amicizia iniziata negli anni complicati
della gioventù. Era l’autunno del 1985, quando Roberto, che allora era segretario regionale del PCI, mi dice che sta cercando di mettere
assieme un gruppo di imprenditori per cercare di salvare “Il Lavoro”, sull’orlo del fallimento. Mi chiede se voglio fare
parte della squadra. L’impegno finanziario previsto è fra i 4 e i 500 milioni di lire che verrebbero suddivisi fra i vari
soci. Confesso che l’idea di impegnare la nostra azienda, abituata a lavorare prevalentemente all’estero, in una
iniziativa nuova, totalmente diversa dalla nostra tradizionale attività nel settore impiantistico e di contribuire a
mantenere viva una voce fortemente radicata nella nostra città mi stimolava molto. Ne parlai quindi in azienda e, in
particolare, con il mio socio Paolo Scurci, che aveva sempre condiviso con entusiasmo e supportato i vari tentativi di
diversificazione che avevamo intrapreso nel corso degli anni. Alla fine decidemmo di accettare la proposta: ci incontrammo con gli altri potenziali soci (Flavio Repetto, Achille Danilo
Taverna e Luigi Milano Regis) e concordammo di costituire una nuova società allo scopo di acquisire le testate de “Il
Lavoro” e “Il Lavoro del lunedì”. La nuova società, che decidemmo di chiamare SELPI srl (Società Editrice Ligure Piemontese), venne costituita nel dicembre
del 1985 con un capitale iniziale di 20 milioni di lire. Ciascun socio partecipava con un quota del 25%. A metà gennaio del 1986 il capitale sociale venne portato a 300 milioni di lire e a fine gennaio a 600 milioni e la SELPI
venne trasformata in SPA. A quel punto ci rendemmo tutti conto che l’impegno finanziario era molto più gravoso di quanto
non avessimo previsto. Certamente, per quanto riguardava la nostra azienda, non eravamo in grado di sostenere ancora a
lungo un’operazione con esigenze finanziarie indefinite senza mettere a rischio la nostra attività. Ma ormai eravamo in
mare aperto e non era facile tornare indietro e poi comunque eravamo affascinati dal progetto. Decidemmo quindi di
costituire una società di scopo, la PUBLICONSULT srl e di coinvolgere altri imprenditori che avrebbero rilevato parte del
nostro 25%. Io venni delegato a rappresentare la nuova società nel Comitato Esecutivo della SELPI. Gli avvenimenti successivi furono un turbinio di aumenti di capitale, di cessioni di azioni dei soci fondatori ad altri
soggetti fino all’acquisizione nel 1987 della maggioranza delle azioni SELPI da parte del Gruppo Editoriale l’Espresso. La
nostra società mantenne il 5% delle azioni SELPI fino al 1989 quando poi, fradicia e col fiato corto, riuscì a riguadagnare
la riva cedendo la propria partecipazione alla AIDO, editrice de l’Unità. Non conosco gli avvenimenti e gli avvicendamenti
successivi.
Roberto, sempre lui, mi chiede ora di fare una sintesi di quella esperienza. Fare un bilancio a più di vent’anni di distanza, quando gli avvenimenti di quel periodo sono ormai stati metabolizzati, non
è semplice. Tuttavia, mi sento di fare qualche considerazione. I soci fondatori della SELPI rappresentavano una compagine alquanto eterogenea fatta di imprenditori, magari di successo,
ma senza alcuna esperienza nel settore dell’editoria e senza alcuna idea su come gestire uno strumento così delicato, il
giornale, se non quella di rappresentare e, se possibile, accontentare la propria area politica. Ciascuno di noi rappresentava sensibilità, istanze, interessi diversi per cui era estremamente difficile raggiungere un
accordo anche sulle cose più semplici. Eravamo tutti in qualche modo condizionati, le discussioni in consiglio di
amministrazione si prolungavano all’infinito e intanto il giornale, che avevamo prima preso in affitto dalla società
editrice in amministrazione controllata e poi rilevato dal fallimento, continuava a perdere copie e i buchi di bilancio si
allargavano a dismisura. Non parliamo poi della scelta del direttore che avrebbe dovuto rappresentare il punto nodale per
il rilancio della testata. Incontravamo i vari candidati ma poi uno era troppo di destra, l’altro era troppo di sinistra:
insomma, non si riusciva mai a trovare un’intesa e si rimaneva in posizione di totale stallo. Il problema del direttore
venne poi risolto soltanto con l’avvento del Gruppo Editoriale l’Espresso ma a quel punto la cordata che aveva costituito
la SELPI non esisteva praticamente più. Va comunque detto, per chiarezza, che il nostro intendimento era stato quello di avviare un percorso, salvare un giornale
che faceva parte della storia di questa città e stimolare poi il coinvolgimento di altri imprenditori con cui condividere
eventualmente questa straordinaria esperienza. Ma Genova ancora una volta dimostrò di essere matrigna: nessuna dimostrazione di simpatia, nessuna manifestazione di
interesse. Su questa iniziativa piombò il silenzio più assoluto, sia da parte delle istituzioni che degli imprenditori. Altro che ritorno in immagine, come si pensava all’inizio! Forse ci eravamo inoltrati in un territorio sconosciuto come un’armata brancaleone ma, a distanza di tanti anni, resta
comunque la soddisfazione di aver contribuito a salvare sia il giornale sia i posti di lavoro.
Luciano De Angelis
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