Perché il PCI contribuì a salvare “Il Lavoro”?
Marina Milan e Luca Rolandi ricostruiscono, meritoriamente, la storia de Il Lavoro dal 1903 al 1992.
Si soffermano anche sulle vicende che a metà degli anni ’80 videro entrare in campo una cordata “genovese” che permise al
Lavoro di sopravvivere e di collocarsi poi all’interno dell’editoriale L’Espresso e di Repubblica. Si ricorda quindi il
ruolo che il PCI ed io personalmente, come segretario regionale, avemmo in quell’operazione.
Rimane da spiegare perché ci impegnammo. Non certo per una specie di romanticismo personale. È pur vero che a metà degli
anni ’60 avevo scritto qualche articolo sulla terza pagina di quel giornale, sollecitato da Tullio Cicciarelli. Non fu però
certo memorabile, quella presenza, ed erano già passati molti anni. Allora ero molto giovane, avevo qualche velleità
socio-letteraria e presto prese il sopravvento la passione per la politica. In seguito scrissi molte volte su quel
giornale o ne fui intervistato ma questa era ormai un’altra storia.
Non c’era neppure un’identificazione politica con quel quotidiano. C’erano molti motivi di apprezzamento ma anche di
dissenso politico forte, in particolare nei confronti della direzione di Intini e di Zincone e in modo specifico sul
terrorismo. La loro linea, come d’altra parte quella di una parte del PSI e dell’estremismo extraparlamentare era volto a
contrastare a tutti i costi il PCI e poi anche il “compromesso storico”. Lo facevano in modo spregiudicato e commettendo,
qualche volta, errori clamorosi.
Anche con la direzione di Cesare Lanza, pur in un clima di dialogo e di confronto, non era facile essere in sintonia.
Eppure lui era stato iscritto al PSIUP, per un breve periodo però, a differenza di me.
E allora perché? La metà degli anni ’80 era un periodo molto difficile per la Liguria, per il suo apparato produttivo e per
la polemica tra le forze economiche e politiche.
Era essenziale, tra l’altro, garantire il pluralismo dell’informazione, non indebolire il dibattito, il confronto sulle
idee. Era essenziale, secondo me, non consentire la concentrazione dell’informazione. E poi si trattava, nel caso de Il
Lavoro, di una testata storica del socialismo e del riformismo ed era forte per me l’esigenza di favorire un nuovo
confronto e incontro a sinistra.
L’operazione era molto difficile perché gli imprenditori genovesi erano ben poco disposti a rischiare e perché le
divisioni, le gelosie, erano all’ordine del giorno.
Per tutti questi motivi condussi un’operazione riservatissima anche all’interno del mio partito (con l’amministratore
Giorgio Azzari e pochi altri) e del tutto defilata all’esterno. L’obiettivo era raggiungere un risultato e non fare
propaganda o cercare di ottenere qualche piccolo vantaggio politico immediato.
Coinvolgemmo anche alcuni commercialisti e studi legali di fiducia.
Quando fu evidente, e lo fu quasi subito, che quella cordata non poteva durare a lungo e non era una leva per attrarre
altri imprenditori della città, mi rivolsi a Roma direttamente a Marco Benedetto, per capire se poteva esserci un interesse
editoriale più forte e duraturo e ne parlai all’interno del mio partito a livello nazionale per favorire quell’evoluzione.
L’interesse c’era e alla fine si concretizzò.
Infine, perché rivelare dopo tanti anni questo percorso che sembrava quasi del tutto sconosciuto? L’intento è stato quello
di valorizzare un modo di intendere la politica che, in quel caso come in tanti altri, dimostrava di saper corrispondere ad
interessi generali e di sapersi muovere discretamente per ottenere risultati ambiziosi e in modo “disinteressato”.
Se c’è un orgoglio personale, è proprio quello di rivendicare, ieri come oggi, l’importanza della buona politica che, a
volte, non sempre, può essere un’arte nobile e indispensabile.
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