Il Lavoro, Repubblica: due giornali in uno e il paracadute che ha salvato una nobile storia
Quanti paracaduti si sono aperti a Genova tra il 1976 e il 1992 per salvare Il Lavoro, giornale quotidiano nato nel 1903,
già organo della Federazione genovese del Psi, poi scialuppa nella tempesta dell’editoria in crisi? Tra il fallimento della “proprietà socialista”, all’indomani della vittoria craxiana, ma senza nessuna connessione con
essa, e la trasformazione della gloriosa testata nella costola ligure di Repubblica, i salvataggi sono stati tanti ed hanno
impegnato ogni fronte della società genovese. Si può dire, ricostruendo la storia ricchissima de Il Lavoro, che tutte le
forze della città, quasi indistintamente, ci avevano provato: dal cardinale-principe Giuseppe Siri che aveva chiamato a
raccolta gli imprenditori, ai leader politici di quegli anni, senza distinzioni di bandiere e muri contrapposti, ai gruppi
editoriali più importanti del Paese, compresa la Rizzoli pre tempesta P2, fino ai singoli editori, magari giudicati per
eccesso di spregiudicatezza ma con il senno di qualche decennio dopo provvidenziali, come Cesare Lanza, fino a compagini
imprenditoriali potentissime, quali il gruppo gruppo Cameli-Gerolimich. Si sono sprecate grandi professionalità e enormi
energie per tenere in vita il giornale che Pertini diresse per venti anni e che era stato l’ultimo a subire il fascismo,
che aveva ospitato direttori e firme del calibro di Giovanni Ansaldo, il celebre “Stella Nera” e poi Irene Brin, Mario
Soldati, e uno stuolo di intellettuali e letterati che rendevano la sua terza pagina, una delle più ricche del medio
Novecento, tra gli anni Venti e la Seconda guerra mondiale. E che avrebbe ospitato, questo giornale, negli anni della crisi
e dei paracaduti lanciati per farlo sopravvivere, la nouvelle vague del giornalismo, quella che usciva in parte dal
Sessantotto e che sarebbe stata la spina dorsale del giornalismo e dell’editoria moderni, di oggi e di ieri: Paolo
Vittorelli, Ferruccio Borio, Ugo Intini, Giuliano Zincone, Lucia Annunziata, Gad Lerner, Daniele Protti, Francesco Cevasco,
Mimmo Candito, Attilio Giordano, Luigi Irdi, Giorgio Boatti. Tutto inutile fino allo sbarco del Gruppo Espresso, grazie all’intuizione di un genovese, allora amministratore della
corazzata di via Po, Marco Benedetto e del principe-editore Carlo Caracciolo, i quali videro la possibilità di salvare Il
Lavoro, mettendolo nella flotta della Finegil, dove navigavano già tredici giornali locali, del calibro de Il Tirreno di
Livorno, il Mattino di Padova, la Nuova Sardegna, La Provincia Pavese, La Gazzetta di Mantova, di Reggio e di Modena e
compagnia cantante? Inutile non fu, perché tutti quegli uomini di buona volontà, cardinali, imprenditori, segretari di partiti politici e poi
giornalisti, consentirono al vecchio giornale di stare a galla, di salvare non solo la sua voce così importante per la
democrazia e la libertà anche a Genova, ma qualche decina, se non centinaia di posti di lavoro, un intero stabilimento
industriale. Ma poi con l’arrivo di Repubblica e la manovra estrema di mettere due giornali così diversi ( l’uno di storia quasi
ottocentesca, forte ma molto locale nella sua diffusione, l’altro, il vero giornale trasversale-nazionale, nato solo nel
1975, molto romano) in uno solo, il rischio divenne che Il Lavoro perdesse la sua identità e, quindi, la sua forza in una
città che cambiava con velocità spaventosa. Nelle tempeste editoriali di oggi, con i giornali in caduta libera di diffusione cartacea e l’informazione tutta sul video
e sul web, la zattera de Il Lavoro, agganciata a Repubblica, è quasi un miracolo difficile da mantenere. Se non si fosse
aperto quell’ultimo paracadute, che ho avuto l’onore di maneggiare per una quindicina di anni, oggi la storia del Lavoro
sarebbe solo un elegante reperto storico, come Il Caffaro, il Corriere della Liguria o qualche Gazzetta settecentesca.
Invece è vivo e – come si diceva qualche decennio fa – lotta con noi.
Franco Manzitti
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