Di Eugenio Piovano
Il Gruppo consiliare PD in Regione ha recentemente illustrato alla stampa un documento, ambiziosamente intitolato “3.000 posti di lavoro in Liguria nella green economy”, sulla politica energetica regionale.
Il documento, nella sua necessaria sinteticità, contiene una serie di indicazioni largamente condivisibili relativamente allo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili, ma pone un vincolo molto forte, addirittura assoluto, riguardo la produzione energetica da fonte fossile (…”risulta quindi assolutamente non espandibile la produzione di energia elettrica da fonte fossile”…). Tale posizione è motivata dalla considerazione, vera, che “La produzione di energia elettrica in Liguria supera ampiamente il fabbisogno locale…”.
A mio parere si tratta di una posizione arretrata e subalterna che il PD dovrebbe sforzarsi di superare. Estendendo tale concetto, si potrebbe infatti, per assurdo, sostenere che occorre chiudere le vetrerie della Valbormida perché gran parte del vetro che producono viene esportato!
Se si dimostrasse che, grazie a nuove tecnologie, si riesce a produrre più energia a parità di impatto sull’ambiente (o addirittura con un miglioramento della situazione ambientale) perché dovremmo impedire, con un vincolo siffatto, lo sviluppo di un’attività produttiva?
Il punto mi pare sia quello di mettere in campo conoscenze e strumenti idonei a misurarsi, volta per volta, con questo tipo di problematiche e non porre, magari condizionati da problemi particolari, generici vincoli destinati ad impedire lo sviluppo di buone opportunità che potrebbero presentarsi (mi riferisco ad es. alla proposta, avanzata qualche tempo fa, di realizzare una nuova centrale a cogenerazione a Genova in sostituzione di quelle esistenti di ILVA ed IRIDE).
Nel documento si fa poi riferimento alla necessaria revisione del Piano Energetico Regionale. Proposta condivisibile, ma se non si sviluppa una riflessione vera, basata sulle esperienze, sugli strumenti, normativi, tecnici ed economici di attuazione, la mera revisione del Piano Energetico è destinata a tradursi in un documento, come quello vigente, rimasto in larga misura inattuato.
Ad esempio, il Piano di cui sopra aveva individuato l’energia da biomasse come componente significativa nello sviluppo delle fonti rinnovabili partendo dalla considerazione che il bosco in Liguria rappresenta oltre il 60% del territorio regionale. Il confronto con la realtà (difficile accessibilità, frammentazione delle proprietà etc) ha fatto sì che le poche iniziative che stanno realizzandosi, pur interessanti dal punto di vista della manutenzione del territorio e della rivitalizzazione dell’entroterra, incidano in modo trascurabile sul bilancio energetico regionale. Nel frattempo sono state bocciate proposte di utilizzo di biomasse non locali, magari significative sotto il profilo energetico, ma ritenute “non sostenibili”.
La lezione che si può trarre è che lo sviluppo sostenibile delle energie alternative implica una conoscenza ed una “lettura” del territorio che facili slogan o mode del momento non possono sostituire.
Una vera e propria omissione nel documento del Gruppo regionale riguarda l’utilizzazione dei rifiuti come fonte energetica. Come è noto, nel Piano Energetico vigente, era previsto un contributo da questa fonte di circa 250 GWh/anno, pari a circa il 4% dei consumi elettrici regionali. Altro obiettivo mancato. Non si ha nulla da dire in proposito?
E non mi riferisco solo ai cosiddetti “termovalorizzatori”. E’ noto infatti che, in linea teorica, il bilancio energetico del recupero di materiali (vetro, plastica, alluminio etc) è migliore rispetto a quello diretto associato alla combustione. A questo proposito, benché siano stati fatti passi avanti (piccoli) per quanto riguarda la raccolta differenziata, siamo ancora assai carenti per quanto riguarda la filiera del recupero, senza la quale gli sforzi prodotti si traducono solo un danno economico e, in ultima analisi, ambientale. Le recenti vicende dei rifiuti che partivano dalla Liguria per andare ad essere trattati fuori regione e quindi tornavano per essere smaltiti in discarica possono essere un esempio di quella che si può definire “green diseconomy”.
Ritengo pertanto che la programmazione regionale debba intervenire nella individuazione di una soluzione in grado di “chiudere il ciclo” ad un livello che le dimensioni dei singoli ambiti provinciali non riescono evidentemente ad assicurare.
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