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N.2/2012 Il Lavoro e la Repubblica due giornali in uno

Il Lavoro, Repubblica: due giornali in uno e il paracadute che ha salvato una nobile storia

Quanti paracaduti si sono aperti a Genova tra il 1976 e il 1992 per salvare Il Lavoro, giornale quotidiano nato nel 1903,

già organo della Federazione genovese del Psi, poi scialuppa nella tempesta dell’editoria in crisi?
Tra il fallimento della “proprietà socialista”, all’indomani della vittoria craxiana, ma senza nessuna connessione con

essa, e la trasformazione della gloriosa testata nella costola ligure di Repubblica, i salvataggi sono stati tanti ed hanno

impegnato ogni fronte della società genovese. Si può dire, ricostruendo la storia ricchissima de Il Lavoro, che tutte le

forze della città, quasi indistintamente, ci avevano provato: dal cardinale-principe Giuseppe Siri che aveva chiamato a

raccolta gli imprenditori, ai leader politici di quegli anni, senza distinzioni di bandiere e muri contrapposti, ai gruppi

editoriali più importanti del Paese, compresa la Rizzoli pre tempesta P2, fino ai singoli editori, magari giudicati per

eccesso di spregiudicatezza ma con il senno di qualche decennio dopo provvidenziali, come Cesare Lanza, fino a compagini

imprenditoriali potentissime,  quali il gruppo gruppo  Cameli-Gerolimich. Si sono sprecate grandi professionalità e enormi

energie per tenere in vita il giornale che Pertini diresse per venti anni e che era stato l’ultimo a subire il fascismo,

che aveva ospitato direttori e firme del calibro di Giovanni Ansaldo, il celebre “Stella Nera” e poi Irene Brin, Mario

Soldati, e uno stuolo di intellettuali e letterati che rendevano la sua terza pagina, una delle più ricche del medio

Novecento, tra gli anni Venti e la Seconda guerra mondiale. E che avrebbe ospitato, questo giornale, negli anni della crisi

e dei paracaduti lanciati per farlo sopravvivere, la nouvelle vague del giornalismo, quella che usciva in parte dal

Sessantotto e che sarebbe stata la spina dorsale del giornalismo e dell’editoria moderni, di oggi e di ieri: Paolo

Vittorelli, Ferruccio Borio, Ugo Intini, Giuliano Zincone, Lucia Annunziata, Gad Lerner, Daniele Protti, Francesco Cevasco,

 Mimmo Candito, Attilio Giordano, Luigi Irdi, Giorgio Boatti.
Tutto inutile fino allo sbarco del Gruppo Espresso, grazie all’intuizione di un genovese, allora amministratore della

corazzata di via Po, Marco Benedetto e del principe-editore Carlo Caracciolo, i quali videro la possibilità di salvare Il

Lavoro, mettendolo nella flotta della Finegil, dove navigavano già tredici giornali locali, del calibro de Il Tirreno di

Livorno, il Mattino di Padova, la Nuova Sardegna, La Provincia Pavese, La Gazzetta di Mantova, di Reggio e di Modena e

compagnia cantante?
Inutile non fu, perché tutti quegli uomini di buona volontà, cardinali, imprenditori, segretari di partiti politici e poi

giornalisti, consentirono al vecchio giornale di stare a galla, di salvare non solo la sua voce così importante per la

democrazia e la libertà anche a Genova, ma  qualche decina, se non centinaia di posti di lavoro, un intero stabilimento

industriale.
Ma poi con l’arrivo di Repubblica e la manovra estrema di mettere due giornali così diversi ( l’uno di storia quasi

ottocentesca, forte ma molto locale nella sua diffusione, l’altro, il vero giornale trasversale-nazionale, nato solo nel

1975, molto romano) in uno solo, il rischio divenne che Il Lavoro perdesse la sua identità e, quindi, la sua forza in una

città che cambiava con velocità spaventosa.
Nelle tempeste editoriali di oggi, con i giornali in caduta libera di diffusione cartacea e l’informazione tutta sul video

e sul web, la zattera de Il Lavoro, agganciata a Repubblica, è quasi un miracolo difficile da mantenere. Se non si fosse

aperto quell’ultimo paracadute, che ho avuto l’onore di maneggiare per una quindicina di anni, oggi la storia del Lavoro

sarebbe solo un elegante reperto storico, come Il Caffaro, il Corriere della Liguria o qualche Gazzetta settecentesca.

Invece è vivo e – come si diceva qualche decennio fa – lotta con noi.

Franco Manzitti   

 
 
 
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